Si definisce così: «Sono il nipote di Oscar Wilde. Sono il poeta dai capelli più corti del mondo. Statura: due metri. Peso: centoventicinque chili (o poco di meno). Sono il Critico brutale. Il Campione di Francia di boxe. Disertore in undici paesi».
«La mia specialità era una cosa completamente nuova: la lotta tibetana, la più scientifica mai conosciuta, ben più tremenda del jujutsu: una pressione su qualsiasi nervo o tendine e paf! l'avversario (che non era pagato – giusto un filino) crollava come fulminato! C'era di che morir dal ridere: senza contare che poteva rivelarsi una miniera d'oro…».
«È semplicissimo: se scrivo è per mandare in bestia i miei colleghi, per far parlare di me e cercare di farmi un nome. Se hai un nome, hai successo con le donne e negli affari. Avessi la fama di Paul Bourget, mi esibirei ogni sera con indosso solo un perizoma, in uno spettacolo di varietà, e vi garantisco che farei furore».
«Era la notte del 23 marzo 1913. E se fornirò minuziosi dettagli sullo stato d'animo in cui mi trovavo quella sera di fine inverno è perché furono le ore più memorabili della mia vita. […] una curiosità folle mi spingeva a voler distinguere quell'ombra nell'oscurità. E, d'impeto, non provai alcun imbarazzo a dire: "Oscar Wilde, vorrei vederla bene; mi lasci illuminare questa stanza". "Faccia pure", rispose lui con voce appena udibile».
«Se a diciott'anni avessi saputo il latino oggi sarei imperatore – Cosa è più nefasto: il clima del Congo o il genio? – le colture di carote a forma di tomba – il pensiero esce dal fuoco – stelle, disperazione del poeta e del matematico – più vergine e più furioso – a un uomo disciplinato non basta forse, come cambiamento nella vita, sedersi una volta al mese all'altro capo della sua scrivania? Per un attimo ho pensato di firmarmi Arturo I».